Una riflessione sulla sostenibilità tra futuro e prosperità

Il termine sostenibilità  viene utilizzato frequentemente nei contesti più diversi, anche se una piena consapevolezza di cosa debba rappresentare ancora non c’è…

Il concetto di “sviluppo sostenibile” è balzato alla cronaca per la movimentazione globale svoltasi il 15 marzo 2019 in supporto alla protesta solitaria di una ragazza di sedici anni che ogni venerdì saltava la scuola per manifestare davanti al parlamento svedese contro il cambiamento climatico in atto, il suo nome è Greta Thunberg.

Il termine “sviluppo sostenibile” fu proposto dalla Commissione della Banca Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo nel 1987, come il principio guida delle politiche ambientali nel report “Our Common Future (più noto come rapporto Brundtland). In base alla definizione data in quella occasione, lo sviluppo, per essere sostenibile, deve venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità  delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.

Tale definizione non implica necessariamente un legame tra sviluppo economico e ambiente, anche se è del tutto ragionevole ritenere che proprio il rapporto tra sviluppo economico e condizioni dell’ambiente sia il terreno appropriato per applicare e verificare quella definizione.

Dalla sua introduzione, e soprattutto negli ultimi anni, i responsabili di politica economica sono stati più volte richiamati ad agire nel rispetto della sostenibilità . Sfortunatamente, la forte volontà sociale di alterare pratiche correnti non è sufficiente a fornire un indirizzo serio di intervento pubblico perché le profonde ambiguità che circondano il concetto di sostenibilità complicano la scelta tra politiche alternative.

Su wikipedia leggiamo:

“La sostenibilità è la caratteristica di un processo o di uno stato che può essere mantenuto ad un certo livello indefinitamente“.

Per rispondere all’ambiguità della definizione venne introdotta la nozione di “capitale” da trasferire da una generazione all’altra.

Il capitale ha tre componenti:

  • il capitale artificiale (edifici e infrastrutture);
  • il capitale umano (la scienza, il sapere, la tecnica);
  • il capitale naturale (l’aria pulita, l’acqua pulita, la differenziazione biologica, ecc…).

In base a questo concetto generale di capitale, è chi sostiene che, mentre si conserva il valore del capitale globale, uno dei suoi componenti (per esempio il capitale naturale) può essere speso, sempre che si incrementi un altro componente (come il capitale artificiale) della stessa misura. Questo punto di vista riceve il nome di sostenibilità  debole, e frequentemente (e convenientemente) molti politici e uomini d’affari aderiscono ad esso in nome del progresso.

I difensori della cosiddetta sostenibilità  forte argomentano, invece, che il capitale naturale non deve dilapidarsi ancora di più, perché le conseguenze potrebbero essere irreversibili (desertificazione, malattie, cambiamenti climatici), e che la conseguenza dell’impatto a lungo termine sulla vita umana e la biodiversità  sono una grande incognita. La grande maggioranza di scienziati ed ecologisti sostiene questo ultimo punto di vista, ma il dibattito continua ad essere aperto.

Sostenitore della filosofia “debole“ è Howarth che interpreta il vincolo dell’utilità  non decrescente come un principio che assicura alle future generazioni l’opportunità  di godere almeno della stessa qualità  della vita della generazione corrente, intendendo per sostenibilità , la condizione che assicura che l’utilità attesa degli agenti non decresca nel tempo.

La filosofia “forte’“, invece, pone particolare interesse sul problema dell’incertezza che circonda le questioni ambientali e sull’irreversibilità di alcuni processi di depauperamento delle risorse naturali. I suggerimenti di questa scuola di pensiero assumono la veste di “principi precauzionali“ secondo i quali è necessario salvaguardare il patrimonio naturale nel presente, contro possibili effetti catastrofici nel futuro.

In pratica, il problema è che il concetto di sviluppo sostenibile è stato interpretato in modo vago, ma non è vago.

Il suo difetto è quello di essere nello stesso tempo, accattivante ed ostico.

Troppo accattivante per essere pubblicamente respinto, troppo duro per essere completamente applicato. La posta in gioco è null’altro che il modello di sviluppo delle economie di mercato, fondato sulla crescita illimitata dei consumi, cosa che non è né ecologicamente ne socialmente sostenibile.

Occorre un nuovo modello di sviluppo che metta in discussione gli stili di vita, soprattutto nei paesi ricchi. Questo è quanto è stato indicato nel 1992 a Rio de Janeiro sulla base dell’interpretazione che la commissione Brundtland diede del concetto di sviluppo sostenibile.

Che questa indicazione non sia affatto vaga, ma al contrario forte e significativa, lo dimostra la premessa politica con cui il presidente degli Stati Uniti, Gorge Bush senior, si presentò a Rio de Janeiro: “Il nostro modello di vita non può essere oggetto di negoziato“. In Europa e negli altri paesi occidentali l’approccio è certo meno assertivo di quello americano, ma forse anche meno lucido. Non c’è la piena consapevolezza della posta in gioco (o almeno non viene esplicitata) e quindi non c’è mai una scelta coerente e definitiva a favore o contro l’idea della sostenibilità ecologica e sociale.

Un esempio concreto di insostenibilità  è la gestione dello smaltimento dei rifiuti in Italia: invece di ridurre il rifiuto a monte ed incentivare e concretamente attuare una raccolta differenziata a livello nazionale, si continua a costruire e riempire discariche e realizzare nuovi inceneritori per rifiuti, due soluzioni complementari e non sostitutive tra di loro come vorrebbero far credere i loro promotori.

Una rinnovata consapevolezza riguardo al concetto di sostenibilità  forte sta attraversando il nostro paese, sotto forma di proteste e manifestazioni mosse in prevalenza dall’evidenza che il modello di sviluppo imposto a livello globale, sotto forma di “stili di vita“ volti al consumismo sfrenato promosso da un’industria culturale sempre più internazionale, sta minando le fondamenta di un potenziale sviluppo sostenibile a livello locale, sta cercando di trasformare in modo irreversibile la destinazione d’uso dei nostri terreni ricchi di tipicità dalle quali derivano culture per certi versi “vecchie“ ma che non per questo devono essere gettate, anzi andrebbero riciclate o meglio riutilizzate.

Parola d’ordine glocal quindi, aumentare la conoscenza del diverso e mantenere le specificità di territori e culture, per una consapevolezza globale delle tipicità locali.

Sviluppo sostenibile inteso un po’ come ricerca della prosperità , ma non nel senso consumistico e ad obsolescenza programmata del “progresso’“ che ci viene prospettato, bensì nel senso di un benessere diffuso in una filiera produttiva inserita in un contesto di consumatori informati e responsabili.

Che significato attribuiamo quindi al concetto di sostenibilità ?

L’innovazione nei processi produttivi nel settore agricolo può contribuire ad uno sfruttamento responsabile e ad uno sviluppo sostenibile delle nostre campagne, favorendo di riflesso la sostenibilità delle nostre città ?

Forse la Sostenibilità va ricercata proprio nelle zone agricole e rurali più che nelle città che per naturale evoluzione sono insostenibili. Ridurre i consumi in primis di terra, acqua e aria, le risorse che hanno permesso e permettono la vita sulla terra.

inspirato dalla tesi di laurea di Vincenzo Puzone Sostenibilità in campagna: il caso Acerra